Amici di Art-Waves, oggi siamo entusiasti di presentarvi Marco Bugatti, artista dall’identità inconfondibile. Nato a Monza, classe 1978, musicista, cantautore e scrittore, Marco è attivo sulla scena musicale da oltre un decennio. Attraverso la sua musica ama provocare e dire sempre la verità, celebrando il Rock 'n Roll come linguaggio universale di ribellione e autenticità.
La sua esperienza musicale ha avuto inizio con i Grenouille, rock band milanese attiva tra il 2008 e il 2013, che ha conquistato l’attenzione della scena alternativa italiana grazie a sonorità grunge e testi profondi e provocatori. Dopo lo scioglimento del gruppo, Marco ha intrapreso un percorso solista che lo ha portato ad addentrarsi in un sound più intimo e cantautorale, influenzato da artisti come Enzo Jannacci e Vinicio Capossela. Il suo primo album solista, “Romantico”, pubblicato nel 2016, mostra il suo lato più personale e poetico.
Oltre alla musica, Marco Bugatti è anche scrittore e blogger. Recentemente ha pubblicato il libro "Rhollywood", un romanzo ambientato a Rho, nell'hinterland milanese. Attraverso le vicende di Alice e del suo gruppo di amici, il romanzo racconta il difficile passaggio all'età adulta nell'Italia a cavallo del nuovo millennio, in una periferia talvolta brutale. La narrazione si trasforma in un thriller avvincente quando una serie di eventi misteriosi getta un'ombra inquietante sulla comitiva, sotto la presenza minacciosa di un inceneritore.
I testi musicali e letterari di Marco riflettono una profonda attenzione alla realtà quotidiana, alternando ironia dissacrante e momenti di lirismo urbano che non temono di confrontarsi con la verità. Tra le sue ultime produzioni musicali spicca il singolo “Fare casino”, che celebra l’energia del rock con un messaggio di ribellione positiva e festosa. Marco Bugatti riesce a tenere insieme l’eredità ruvida del rock e il coraggio di guardare avanti, creando uno stile personale capace di andare oltre le convenzioni. Ecco a voi la nostra intervista… buona lettura!
Ciao Marco, è un piacere averti con noi! Per iniziare, ci piacerebbe conoscere un po' di più su di te. Come è iniziato il tuo percorso musicale e cosa ti ha spinto, per la prima volta, a comporre la tua musica?
Ciao a tutti! La musica mi ha sempre accompagnato, fin da piccolo. Ho iniziato a suonare pianoforte all’età di 6 anni e in adolescenza ho scoperto il rock ‘n roll. La mia prima canzone l’ho scritta a 17, nello scantinato dei miei. Era un pezzo in inglese che poi ho riscritto in lingua italiana ed è diventata “Saltando dentro al fuoco”, la canzone che ha fatto conoscere i Grenouille alla scena underground negli anni ‘00.
Parlaci della tua esperienza con i Grenouille, il gruppo con cui hai condiviso parte del tuo percorso musicale. Cosa ti ha insegnato quell’esperienza e in che modo ha influenzato la tua carriera da solista?
Era un progetto smaccatamente grunge, ma in lingua italiana. Uscivo da un’adolescenza turbolenta fatta di rabbia, droghe e depressione e ho intrappolato tutto dentro a quel disco, nella migliore tradizione di Seattle. Mi ha insegnato che posso essere un vero cantautore, la reazione del pubblico, soprattutto all’inizio, è stata estremamente positiva. Non abbiamo firmato con Tempesta per un soffio. Abbiamo condiviso il palco con Bugo, Tre allegri ragazzi morti, Giorgio Canali. Facevamo interviste e firmavo autografi, è stato tutto estremamente intenso. Ma mi ha anche insegnato che l’ambiente artistico, anche quello alternativo, è corrotto e volubile, come qualsiasi contesto in questo paese. E che nessuno investe veramente sul messaggio ma gli artisti vengono manipolati per logiche che non hanno niente a che fare con l’espressione o con l’arte.
Quali artisti o generi ti hanno influenzato di più? Ci sono album o canzoni che consideri tappe fondamentali della tua crescita musicale?
Io sono figlio degli anni 90, per cui la mia vita è cambiata con Nevermind dei Nirvana. Poi ho imparato la lezione al vetriolo del punk con Nevermind the bollocks, e ho recuperato sicurezza in me stesso grazie alla sua provocazione, al suo sarcasmo e al suo cinismo. Quando sono uscito dal periodo più buio ho scoperto cantautori come Capossela. Sono sempre stato molto legato alla canzone popolare milanese che ho omaggiato nella mia “Pronto soccorso” e amo alla follia quasi tutta la produzione di Pete Doherty, sia come solista che con i Libertines. Adoro Vasco Rossi (che in adolescenza snobbavo).
Qual è, in generale, il tuo approccio alla scrittura di una canzone? Quando scrivi, da dove parti? Dalle parole, da un'immagine, da un accordo? E come si sviluppa per te quel processo creativo che porta una semplice intuizione a diventare un brano?
Io do molta importanza al testo, per cui il mio processo di scrittura è fortemente legato al concetto che voglio esprimere. Potrei dirti che parte tutto da un concetto o, a volte, da una frase molto densa di significato, quasi uno slogan. A volte segue un effetto domino, per cui quella frase si porta dietro la successiva e mi ritrovo con un pezzo scritto nel giro di pochi minuti. Altre volte l’idea mi rimane in testa per mesi e la costruisco piano piano. Scrivendo in Italiano, quello che comanda sono la linea vocale e la musicalità della frase. Successivamente la traduco in accordi mettendo mano alla chitarra.
Se potessi scrivere una canzone ispirata a un libro, quale sarebbe e perché?
Il nome del mio vecchio gruppo è lo stesso del protagonista de “Il profumo” di Patrick Suskind, romanzo molto particolare che ho scoperto grazie alla canzone Scentless Apprentice di In Utero. L’ho voluto omaggiare perché parla di una persona con una capacità sensoriale fuori dal comune che, dopo essere riuscita a ricreare l’essenza dell’amore commettendo atroci efferatezze, finisce con l’essere cannibalizzata spruzzandosi addosso quella stessa essenza. L’ho sempre trovata una metafora della mia storia personale. Mi sono molto rivisto nella figura di Narciso del romanzo di Hermann Hesse. Ma se dovessi ispirarmi a un libro, probabilmente sceglierei qualcosa di Welsh o metterei in musica Requiem per un sogno o Giorni perduti. Ma potrei anche lavorare a qualcosa di estremamente romantico, essendo adesso un uomo perdutamente innamorato.
Quale sarebbe per te lo spazio ideale per ascoltare la tua musica, che atmosfera dovrebbe esserci?
Se parliamo della musica dei Grenouille, probabilmente sarebbe uno stato mentale. Qualcosa di estremamente sofferto e distorto. Se invece prendiamo in considerazione la produzione mia personale, un prato, in primavera, dopo essersi fumati un bel joint di erba.
La musica per te sembra essere stata molto più di una semplice passione: una vera e propria ancora nei momenti più difficili. Cosa rappresenta per te, a livello emotivo e personale?
La musica è sempre stato il mio canale di espressione più diretto e naturale. E’ quella cosa che riempie la mia vita, gli dà colore e spessore. E’ uno stimolo fortissimo, mi entra diretta nel cuore e sotto pelle. In casa mia c’è una Alexa in ogni stanza e, quando non sta pompando Rock ‘n Roll o musica Rap, accompagna le mie giornate con un sottofondo di Soft Jazz. Ho sempre pensato che le canzoni debbano essere un terreno di confronto e che servano per aiutare le persone come me a sentirsi meno sole. A me è successo così, quando ero a un passo dal collasso emotivo.
La scena musicale è cambiata molto dagli anni in cui hai iniziato. Come percepisci il cambiamento in termini di indipendenza artistica? Quali aspetti di questa evoluzione ti entusiasmano e quali, invece, pensi abbiano snaturato quel vigore ribelle e quell'indipendenza creativa, elementi fondamentali per il rock e per la tua visione artistica?
Penso che il concetto di indipendenza creativa non se la passi molto bene e lo stesso quello di espressione artistica, quantomeno nella musica suonata. Viviamo in un’epoca dominata dall’uniformazione. Ho come l’impressione che il pubblico tenda ad adattare se stesso a quello che va di moda, piuttosto che cercare di capire quale forma espressiva lo rispecchi. Intendiamoci, è una cosa che, in parte, è sempre accaduta, ma negli anni ‘90 esisteva il concetto di eccezione vissuta con orgoglio, adesso sembra che nessuno si ponga più domande. Siamo felici di farci imboccare dai media e sforzarsi di essere uguali agli altri è considerata la strada maestra. Poi, è anche vero che oggi i mezzi di produzione e promozione sono molto più accessibili di quando ho cominciato io e questo è assolutamente un bene. Non voglio fare il passatista, non lo sono nel modo più assoluto, e ho un’anima pop, non mi piacciono le cose troppo sperimentali. Ma odio il pensiero unico, quello sì. Sono per la eterogeneità. Ecco, nella musica penso che al momento non ce ne sia moltissima. E sicuramente il mio genere, il rock indipendente, non è più di moda.
Prima di addentrarci nel percorso di scrittura che hai intrapreso di recente, vorremmo soffermarci su alcune tue canzoni. In “Fare Casino” trasmetti la fatica del quotidiano e la determinazione a creare, anche quando la stanchezza cala. La notte, per te, sembra celare intuizioni speciali: quali emozioni o ispirazioni emergono nelle ore tarde, magari nascoste dalla luce del giorno?
La notte e la solitudine sono dimensioni fortemente intimiste che tendo a ricercare continuamente. E’ in quelle situazioni che riesco a “scavare” dentro me stesso e a viaggiare con la fantasia. Solitamente cerco di immaginare cose che parlino di me ma che, allo stesso tempo, mi piacerebbe leggere o ascoltare. Ho vissuto tutte le mie relazioni nell’ottica di non rinunciare ai miei momenti. Tutte le donne che mi hanno accompagnato nel viaggio hanno dovuto rapportarsi a questa mia esigenza.
Con “Amen” ci porti in un viaggio riflessivo, affrontando il tema della libertà personale con grande intensità e una sottile delicatezza. Come è nata questa visione e cosa speravi di comunicare attraverso questa canzone?
Devo ringraziarti per la puntualità della domanda. Spesso mi sorprendo quando qualcuno non capisce che quella canzone non parla della beata vergine. Questo rientra nella questione di cui sopra: il non farsi domande. Penso sia logico che il testo vada contestualizzato con il mio background. Se lo si facesse, si capirebbe che la marijuana, vera protagonista della canzone, diventa una metafora delle libertà personali e della fuga da una società che le vuole limitare, a discapito di qualsiasi logica. Persino alla luce del fatto che una pianta, una sostanza completamente naturale, molto meno dannosa dell’alcool, porti sollievo a tante persone in determinati contesti. Io ho subito atroci sofferenze in passato, sia fisiche che mentali ed è stata per me un’ancora di salvezza. E’ stato il mio psicofarmaco omeopatico. Quella canzone parla di quanto mi abbia aiutato e aiuti anche altre persona a tirare avanti. La nostra classe politica, invece, subdola e ignorante, sembra voglia condannare tutte queste persone alla sofferenza.
In “Fuori” prendi una posizione chiara rispetto all'industria musicale, rifiutando il compromesso e ponendo al centro la tua identità artistica. Hai trovato difficoltà nel rimanere fedele alla tua identità artistica in un contesto che spesso premia il compromesso?
Sì, assoluamente. Quando ho deciso di non fare compromessi, in passato, mi sono giocato tutta la visibilità e ho visto le persone abbandonarmi gradualmente fino a rimanere solo. Per inciso, quando la mia etichetta discografica voleva costringermi a pubblicare un EP di Natale, inserendo la cover in un gruppo con cui loro, per motivi personali, volevano entrare in contatto, li ho mandati a quel paese. Per via di queste e altre logiche pietose ho deciso di restare fuori dal “music game” e, in quella canzone, parlo proprio di questa scelta. Ma descrivo anche l’ultima fase di una mia grande storia d’amore, le sue battute finali. Mi sono sempre piaciuti i testi interpretabili su più livelli e penso di averne fatto un mio registro stilistico.
Nel tuo percorso musicale, hai sempre mantenuto un'attitudine punk, cruda e diretta. Alla luce di questo, pensi che esista una canzone della tradizione milanese che potrebbe adattarsi perfettamente a questo spirito di rottura, trasformandosi in un vero e proprio pezzo punk nei contenuti? In fondo, punk e musica popolare milanese sembrano condividere molte affinità…
Sì, sono totalmente d’accordo con te. Considero la musica popolare milanese una sorta di antesignana musica punk. Molto diretta, ripetitiva, realista e, per l’epoca, provocatoria. Piena di sesso e di alcool, raccontava la vita degli ultimi con romanticismo e cinico umorismo. Ritengo che tantissime canzoni si adattino a questo spirito, ma se dovessi sceglierne una, probabilmente ti direi “ho visto un Re” per la sua carica dissacratoria ma allo stesso tempo costruttiva nei confronti del potere. Una specie di God Save de Queen, se vogliamo.
Milano è spesso protagonista nella tua musica, ritratta nelle sue contraddizioni, nei suoi ritmi, nei suoi angoli che resistono al cambiamento. C’è un luogo che per te incarna davvero la tua “casa”, un rifugio che sopravvive alla trasformazione della città? E che ruolo ha questa Milano nei tuoi racconti artistici?
Milano ricorre nelle mie canzoni proprio perché sono da sempre appassionato sia di punk che di folk ed entrambe hanno come caratteristica comune il fatto di parlare del territorio. La mia concezione di musica è legata alla fotografia della realtà, filtrata dalla mia sensibilità personale. La mia Milano è quella di chi soffre per emarginazione emotiva, dipendenza da sostanze, relazioni tossiche. Se dovessi indicare un locale che è stato la mia casa ti direi il vecchio Moonshine di via Ravenna che, purtroppo, ha chiuso anni fa. Era il tempio della musica indipendente e noi ci suonavamo ogni giovedì, facendo cover, pezzi nostri e improvvisazioni smaccatamente noise. Era una gemma incastonata nella City, sembrava uscita direttamente dagli anni ’70. Ora ti direi lo Spirit de Milan in zona Bovisa, locale che ospita, oltre ad eventi Jazz, anche serate interamente dedicate alle canzoni della tradizione popolare milanese. Quando ci vado sono felice come un bambino e canto tutti i pezzi a squarciagola, tanto che spesso la gente di una certa età mi domanda come faccia a saperne i testi, essendo io di un paio di generazioni dopo. La verità è che mio padre aveva i vinili di Svampa e Jannacci e io li ascoltavo a ripetizione quando ero ancora uno sbarbato e mi facevo ammaliare da quelle atmosfere a volte malinconiche, a volte goliardiche.
Collegandoci proprio alla tradizione milanese, parliamo un attimo del tuo brano “Pronto soccorso”. In questa canzone sembri fare un salto laterale rispetto al tuo percorso abituale: c’è l’omaggio alla canzone popolare milanese, l’eco di Jannacci, un ritornello che strizza l’occhio a Pete Doherty, e persino una citazione da un film con Renato Pozzetto. È un brano ironico, intimo e fuori schema, come una polaroid di ricordi e passioni. Cosa ti ha spinto a sperimentare in questa direzione? E cosa rappresenta per te quella Milano da cabaret, da pane e commedia all’italiana che emerge in controluce nel brano?
Un’altra cosa che caratterizza la canzone milanese e che la accomuna al blues è l’utilizzo degli standard: giri di accordi sempre uguali ma con testi e linee melodiche vocali differenti. Volevo fare la stessa cosa e ho deciso di utilizzare il giro di Do di “la luna è una lampadina” di Enzo Jannacci e gli ho inserito un ritornello alla Doherty. Ho avuto una vita sentimentale ricca, ho vissuto in relazioni aperte e sono sempre stato un po’ pavone ed esibizionista. Ho deciso di parlare di questo aspetto della mia personalità in modo iperbolico e autoironico. Adoro come la musica di Enzo Jannacci e di Cochi e Renato si intersechi con la storia del cabaret milanese. Mio padre è sempre stata una persona allegra, solare ed ottimista e ha sempre cercato di insegnarmi a ridere delle cose della vita. Posso dire che anche questo mi ha salvato. Trovo che la comicità abbia una grande carica comunicativa e rivoluzionaria. Ho il tatuaggio di un Joker sull’avambraccio, a simboleggiare la figura del giullare, che era l’unico che aveva il diritto di sbeffeggiare il Re senza finire giustiziato. Ecco, io percepisco nella comicità questa grande potenza e mi piace che si leghi, a volte, alla musica. Tutta la produzione di Enzo è a cavallo tra comicità nonsense e tristezza profonda. Questa dualità mi ha sempre affascinato e penso si presti molto bene a parlare del mondo che ci circonda.
Milano e la sua trasformazione urbana. C’è un luogo dove ti senti più “a casa”?
Ora il posto in cui mi sento più a casa è casa mia, nella provincia ovest, appena fuori dall’area urbana. Ho deciso di ritirarmi lì e vivere a un passo dalla città. Dal mio balcone vedo lo skyline. Ho scritto un pezzo che parla di questo, ma non l’ho mai registrato. Ha lo stesso titolo del mio romanzo.
Proiettandoci nel futuro, quali direzioni pensi di prendere? Ci sono progetti emozionanti in arrivo, sia nel mondo della musica che magari in altri ambiti, come un nuovo libro o iniziative artistiche che ti stuzzicano?
Ho accantonato la musica per varie ragioni. Al momento vorrei concentrarmi sulla scrittura. Il mio secondo romanzo è già finito, devo solo correggerne la prima stesura, e ne ho già altri due in testa. Purtroppo lavorando e dovendomi anche occupare di una splendida creatura di 4 anni, il tempo è davvero poco, ma la parola “arrendersi” non fa parte del mio vocabolario.
Se dovessi descrivere la tua musica attraverso una metafora sensoriale, quali colori, odori e scenari ti vengono in mente? Come la rappresenteresti?
Colore rosso, odore di benzina e di erba tagliata, una fabbrica abbandonata riconvertita a spazio per concerti.
Quando ci siamo incontrati, avevi con te un libro “L’animale selvaggio” di Joël Dicker. Cosa ti ha colpito di più di quel romanzo? E in generale, cosa cerchi in un libro da leggere?
Quel romanzo mi era stato suggerito da una libraia come quello di un autore di thriller molto in voga al momento. Devo ammettere che è stato parzialmente una delusione. Tutta la storia si basa sul meccanismo del colpo di scena reiterato continuamente. L’ho trovato un libro scorrevole, con una trama sicuramente molto ben architettata, ma con personaggi piatti e poco approfonditi. E poi, dopo il quattordicesimo colpo di scena ho cominciato a stufarmi e l’ho finito un po’ a forza. Non voglio dire che sia un brutto libro, ma solitamente cerco cose che approfondiscano maggiormente la psicologia dei personaggi e adoro le situazioni disfunzionali. Non per niente sono sempre stato un grandissimo fan di King.
Veniamo alla scrittura. Oltre alla musica, hai pubblicato “Rhollywood”, il tuo romanzo d’esordio. Un noir ambientato negli anni ’90 in provincia di Milano, che mescola le atmosfere cupe del thriller alla rabbia e fragilità di una generazione in bilico. Il rock, come sempre, è la colonna sonora e lo strumento di sopravvivenza per un gruppo di ragazzi uniti da una grande perdita, ma anche dalla voglia di capire e da un segreto inquietante che li travolge. Un romanzo potente, diretto e sorprendentemente maturo, che dimostra come la tua identità artistica si esprima con forza anche nel mondo della narrativa. Com’è nata l’idea di scrivere un libro?
Era un’idea che accarezzavo fin da ragazzo, ma poi sono successe due cose che mi hanno dato la spinta definitiva. Avevo appena finito di leggere On Writing di Stephen King, in cui lui esortava a cominciare a scrivere una storia anche se non si ha ancora precisamente in testa il finale. Sosteneva che se, i personaggi sono ben costruiti, prendono autonomamente la loro strada, e io pensavo che fosse una sparata per creare il sogno e rendere il suo libro più vendibile e la sua figura ancora più mitologica. Poi è successo che il caro amico della mia ex ragazza si è suicidato buttandosi dal quinto piano di un palazzo. Questa cosa l’ha profondamente sconvolta e ha fatto sì che il suo piccolo gruppo di amici d’infanzia si ricompattasse dopo aver passato alcuni anni in cui si erano persi di vista. Così ho cercato di fare per lei quello che solitamente faccio per me stesso: trasformare un trauma in una piccola opera d’arte. Una sorta di autoterapia. Non sono sicuro che abbia funzionato per lei come funziona di solito per me, forse questa dinamica si può applicare soltanto in prima persona. Però lei ha un profondo rispetto per ogni forma di arte e mi ha lasciato fare. Ne è uscita una bella storia che intreccia le anime di quattro post adolescenti alla storia della periferia in cui si sono trovati a vivere. E alla fine ho scoperto che King aveva ragione, i personaggi hanno cominciato a muoversi da soli e il finale si è costruito mano a mano che scrivevo.
"Rhollywood” sembra essere una sintesi della tua anima artistica: c’è la rabbia, la sensibilità, la denuncia, l’amicizia, la musica. Quest'ultima è ovunque nel libro: nei locali, nei dialoghi, nella rabbia dei protagonisti. Che ruolo ha il rock nella trama e nella vita di questi personaggi?
Lo stesso ruolo salvifico che ha avuto per me. La mia generazione si è cibata di rock durante tutta la gioventù. Negli anni ’90 era il genere che andava per la maggiore e a noi è entrato nelle ossa. Non riusciremo mai a scrollarcelo di dosso.
In un mondo ideale, chi ti piacerebbe avere come protagonista in un adattamento cinematografico di “Rhollywood”?
Non sono tanto ferrato su attori e attrici, ma posso dirti che vorrei fosse diretto da Gabriele Mainetti o da Sydney Sibilia. Sono i due registi italiani che venero, al momento, assieme a Paolo Virzì.
Lo scorso anno hai scritto che, pur non parlandone spesso, hai dedicato “Rhollywood” a Kurt Cobain. Cosa rappresenta per te oggi, al di là del mito? Per molti è stato un rifugio, un grido, un fratello maggiore senza filtri. Cosa sentivi in lui che parlava direttamente alla tua parte più silenziosa?
La capacità di esprimere profonda sofferenza interiore senza piangersi addosso. Aveva un modo quasi inconscio di farlo, cercando di reagire all’alienazione con rabbia e sarcasmo. Penso che possa aver imparato questa lezione dai Sex Pistols, ma lui lo faceva in modo estremamente più poetico. Indipendentemente da come poi è finita, Kurt mi ha insegnato a reagire, nonostante tutto.
Al di là della musica e della scrittura, c'è qualcosa che ti piacerebbe fare un giorno che non hai ancora avuto modo di realizzare?
Ho in cantiere una striscia a fumetti che penso sia una bomba. Ma per fare tutto quello che vorrei fare artisticamente mi ci vorrebbero tre vite. Oppure una vita sola, ma impaccata di soldi.
Chiudiamo questa intervista con una domanda che siamo soliti fare a tutti: cos’è l’Arte e chi sono gli artisti?
L’arte è comunicazione e mai competizione. Gli artisti sono persone che sanno esprimere quello che sentono, utilizzando le profonde metafore che l’arte ci mette a disposizione.
Grazie Marco per questa bella chiacchierata. Ti auguro il meglio per i tuoi progetti futuri, e che ogni tua ispirazione prenda forma e arrivi lontano.
Grazie a voi. Posso dire che questa è l’intervista più intima e meglio articolata a cui abbia mai risposto.
Googolatemi. Marco Bugatti. E’ facile, mi chiamo come la macchina. Quando vedrete i risultati della ricerca, quello con il borsalino in testa, sono io.
Di seguito riportiamo tutti i link ufficiali dove poter seguire Marco Bugatti:
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Intervista di Marianna L. per Art-Waves
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